Walter Gambarotto, insegnante di Religione Cattolica presso il liceo Porporato di Pinerolo e papà di quattro figli, riflette sul capitolo della lettera pastorale dedicato al Salmo 139.

 

La famiglia Gambarotto

 

Nella lettera pastorale “Brindiamo?”, il vescovo Derio ha dedicato un capitolo al salmo 139. Ne abbiamo parlato con Walter Gambarotto, sposato con Marianna Prochet, papà di quattro figli e insegnante di Religione Cattolica presso il liceo Porporato di Pinerolo.

 

Qual è, per il credente, l’attualità e lo stimolo dei salmi?

I salmi sono una preghiera splendida, ma tutt’altro che immediata. Basta vedere come preghiamo a messa il salmo: spesso non cogliamo che esso è risposta alla Parola di Dio proclamata nella prima lettura; recitiamo il versetto distrattamente, in attesa delle successive letture più comprensibili e che speriamo contengano qualcosa di buono per la nostra vita. In realtà i salmi raccontano la vita di ciascuno: sono parole proferite da un credente che vive l’esperienza umana in profondità, immerso nel mondo e nelle sue contraddizioni, con lo sguardo diretto verso Dio. Essi ci offrono le parole per dire la grandezza, ma anche la fatica della fede: si canta la lode della bellezza del creato, immagine della maestà divina, ma si grida anche il dolore per l’ingiustizia, l’umiliazione, il buio che spesso avvolge la vita del credente.

I salmi sono l’immagine pura del dolore che spesso sentiamo nel cuore: «Dio, perché i malvagi prosperano e i giusti soccombono? Tu che sei il liberatore d’Israele, fino a quando permetterai il dolore innocente?» Bruno Maggioni scrive che «l’esperienza del salmo deve risuonare nell’esperienza del suo lettore»: i salmi ci salvano da una preghiera intimistica, spesso ripiegata su noi stessi, e ci aprono all’esperienza di fede concreta, profonda, sincera. Come sempre, però, è necessario un lavoro, una fatica, una frequentazione assidua per giungere ad assaporarne la bellezza.

 

Il vescovo, commentando il salmo 139, si domanda: «Come affrontare il futuro dentro un mondo ferito dalla pandemia e dalle sue conseguenze?» Oggi potremmo attualizzare aggiungendo la guerra in Ucraina.

Simone Weil afferma: «nella sventura Dio è assente, più assente di un morto. Durante quest’assenza non c’è nulla da amare, e se l’anima cessa di amare, l’assenza di Dio diventa definitiva. Bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto (…). Allora viene il giorno in cui Dio le si mostra e le rivela la bellezza del mondo, come avvenne per Giobbe. Ma se l’anima cessa di amare, cade in qualcosa che assomiglia molto all’inferno». Sappiamo bene che molti hanno sofferto profondamente durante la pandemia, ed oggi veniamo a contatto con i profughi ucraini che hanno perso tutto a causa di una guerra assurda. Ogni volta che il dolore innocente viene chiamato in causa, l’annuncio funebre di Nietzsche si fa più intenso: «Dio è morto!»

Chi vive nel dolore ha bisogno di verità, di compassione autentica, cioè di qualcuno che si metta vicino e condivida realmente quel dolore. Il credente che davvero ha incontrato Dio ha il compito di farsi carico di quelle realtà, di sperare insieme a chi non ha più speranza, condividendone in parte la disperazione: è in questo “amare a vuoto”, ossia senza immediati riscontri effettivi, che la fede e la speranza rimangono vivi e operanti; solo così l’annuncio pasquale della risurrezione di Cristo può ancora interpellare la coscienza dell’uomo contemporaneo. Noi siamo abituati ad un falso sentimento di compassione, quello che nasce quando guardiamo le immagini in tv, seduti comodamente sui nostri divani. Ciò è dimostrato dalla giustissima e accorata sollecitudine verso gli ucraini: in Italia, però, sono circa vent’ anni che arrivano profughi da guerre, carestie, povertà, ma erano per noi solo numeri, una delle tante notizie che scorrono in tv a cui ormai sembriamo assuefatti. Perché ci svegliamo solo adesso? La compassione cristiana è quasi un miracolo: l’essere umano prova una naturale repulsione verso il dolore, verso la sventura. La compassione verso gli sventurati comporta l’uscita dalle nostre comodità, dalle nostre sicurezze, con l’unico sostegno che è la fede in Dio. Ogni credente oggi ha davanti a sé questa sfida: non coglierla significherebbe lasciare inascoltata quella drammatica richiesta del Cristo: «ho sete».

 

“Indugiare fa vedere il permanente nel fuggevole”. Sono parole di Gadamer citate nella lettera. La filosofia può, in qualche modo, farsi compagna della fede nella ricerca di senso e di felicità dell’uomo? 

Oggi la filosofia non può non essere compagna in una ricerca autentica di fede! la secolarizzazione sempre più radicale, l’allontanamento di tantissimi dalla fede e dalla sua tradizione, ci fa vivere in un mondo molto distante dall’idea di Dio annunciata dalla Chiesa. Innanzitutto sant’Agostino ci insegna che «la ragione è un dono di Dio e sarebbe un vero peccato non utilizzarla», arrivando poi al celebre assunto «credo per comprendere; comprendo per credere». Una fede che non sia pensata, seppur coi limiti della ragione stessa, non si può chiamare fede bensì fideismo, di cui i fondamentalismi, di ogni genere, ne sono figli naturali. Come ogni esperienza umana è soggettivizzata mediante il recupero mentale dell’esperienza stessa, così lo deve essere anche l’esperienza di fede. In seconda battuta, per san Tommaso la filosofia era un luogo d’incontro con mondi culturali differenti: Cristo si definisce “la verità”, e se la filosofia cerca sinceramente la verità, alla fine incontrerà Cristo. Ovviamente da parte dei credenti deve essere abbandonato l’atteggiamento dogmatico, a vantaggio di una sincera ricerca della verità cristiana, e il filosofo necessita di una maggior libertà nell’accogliere quanto esula dalla sola e limitata capacità razionale. Edith Stein dice: «ci sono cose che superano i confini delle possibilità conoscitive naturali. La filosofia può riconoscere questi limiti: è conseguente da un punto di vista filosofico rispettare i limiti, mentre è un controsenso voler raggiungere con mezzi puramente filosofici qualcosa che si trova aldilà di detti limiti». Da questo punto di vista il ritorno al dialogo, culturale ma anche come vissuto personale, tra filosofia e teologia può essere davvero fecondo per un rilancio verso la ricerca di senso e di verità.

 

Il vescovo Derio parla della “presenza amorosa di Dio”. Dal punto di vista educativo e pastorale quali strade si possono percorrere per rendere accessibile questa esperienza?  

Quest’anno ho fatto un’esperienza particolarmente importante con una mia classe: all’inizio dell’anno ho voluto affrontare il tema dell’amore: tema evergreen per gli adolescenti di sempre! Sono rimasto, però, tragicamente colpito dalla risposta di moltissimi di loro: «Prof, l’amore non esiste!»

Andando alla radice di questa affermazione, vengo a conoscere i loro vissuti personali: «se non ricevi amore da tuo padre, da tua madre, da chi puoi ricevere amore?»

La nostra società individualista, che ha sfaldato la famiglia e reso liquidi i legami che invece dovrebbero essere solidissimi, ha messo nel cuore delle giovani generazioni la convinzione pratica che l’amore è una grande bugia. Come possono questi giovani credere in un Dio-amore se non sperimentano neppure l’amore umano fondamentale? Davanti alla loro incredulità pratica non ci sono parole che possano scalfirli: hanno bisogno di fare esperienza vera, tangibile, di amore gratuito. Come insegnante è il compito che mi prefiggo ogni mattina prima di entrare in classe: «Gesù, aiutami ad amarli, amali tu in me, hanno bisogno di te!»

Sono convinto che oggi, nel mondo iperconnesso dove tutti parlano, ci sia bisogno di amore sincero, concreto, capillare. Ogni cristiano si deve sentire chiamato ad essere il volto del Dio-amore per le persone che ogni giorno incontra. Dio ci chiama così come siamo, con i nostri limiti e difetti, ma questa è la nostra vocazione, sempre più urgente oggi. Se amiamo davvero, con quell’amore con cui siamo amati, allora anche nei cuori deserti che incontriamo quotidianamente può risorgere il sentimento della “presenza amorosa di Dio”.